Arriveranno gli Americani

La cessione del Catania e i salvatori della Patria

I fatti: per una settimana la possibile cessione del Calcio Catania viene “arricchita” dall’interessamento di un gruppo statunitense, attivo nel campo dell’estrazione petrolifera.
Ci sarebbe di mezzo, secondo notizie di stampa provenienti da fonti giudicate attendibili, un italo-americano di origine ennese dal cuore (rossazzurro) grande.
E tanti soldi, ovviamente.
Per una settimana si susseguono articoli e trasmissioni che tracciano identikit da bene informati, chiamando il benefattore Made in USA una volta “lo zio d’America”, un’altra “Mister X”, senza che nessuno aspetti che il Maresciallo pronunci la fatidica frase: “favorisca i documenti”.
A un certo punto accade e si scopre che tanto mistero dietro roboanti appellativi e improbabili scoop nasconde la solita rete di truffatori conosciuti alle Autorità.
E si ricomincia da capo.

Arriveranno gli americani, con le loro camicie a fiori. E arriveranno con i documenti falsi, le carte d’identità taroccate, l’accento da emigrato del Wisconsin. Arriveranno e troveranno persino chi crederà loro, gaudente anfitrione, impaziente di presentare lo “zio d’America” ai parenti scemi che si bevono qualsiasi cosa.
Chiamare “zio d’America” un potenziale investitore, presuntivamente serio e accreditato, dovrebbe già far suonare un campanello d’allarme; ma anche Wanna Marchi appariva troppo ridicola per essere vera, eppure trovava migliaia di boccaloni pronti a farle un bonifico per creme miracolose o a blandirla in qualche salotto televisivo.
Le rimesse degli immigrati di lusso per salvare il Catania, all’improvviso, con il profumo dei petrodollari che non è altro che puzza insopportabile di presa in giro; sulla pelle dei Catanesi, poi, alla faccia della matricola 11700. Audiomessaggi “dal sen fuggiti” per inventare notizie che non ci sono, con lo “slang” da b-Movie di pessima fattura, giusto per non scomodare il genio di Totò e Peppino, truffatori colmi di dignitosa comicità.
La situazione è grave, ma non è seria.
È la solita storia di navi che affondano, topi che scappano, armatori che rubano le scatole nere per non far sapere che la manutenzione non viene fatta da anni.
E poi c’è l’informazione, con quell’insopprimibile desiderio di scoop che trasforma tutto in oro, a parole, persino il metallo meno nobile. “L’ho detto prima io”, scomodando tutte le ultime lettere dell’alfabeto per accreditare fantomatici mister X, Y, Z, nella logica del “deus ex machina”, del salvatore della Patria, dello zio d’America, in quella miscela tutta siciliana di supina rassegnazione di fronte a conquistatori reali o anche solo presunti e idealizzati.
Una shakerata di Tomasi di Lampedusa, Verga, Pirandello e Micio Tempio, dove il luogo comune diventa marchio di fabbrica e lettera scarlatta insieme, maledizione e destino scurrile.
Ti va bene una volta e arriva Federico II di Svevia, ma non si vive di soli colpi di fortuna. La verità è che siamo intimamente e geneticamente figli del teatro greco e della commedia brancatiana, nel bene e nel male, adoriamo i tragedianti e siamo allergici alla sobrietà: ci meriteremmo lo zio d’America, se non fosse che poi lo fermano all’aeroporto con la carta d’identità falsa e un elefantino di cartone al posto del cuore.

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