Il “Papu” Gomez è diventato un calciatore straordinario: bravo, egoista quando serve, uomo squadra, genio e talento puro.
Lo era già a Catania, in maglia rossazzurra, ma oggi sembra benedetto dagli dèi del gioco del pallone, qualunque cosa faccia.
In quella meravigliosa coincidenza astrale, col suo zenith sotto l’Elefante, ogni argentino che varcava a Porta Jaci sembrava Maradona, in una orgia carnascialesca di gioco, gol, asado, yerba mate, wags della pescheria, sigarette galeotte e felicità.
Poi la legittima fuga, il salto, il Metalist prima, l’Atalanta poi, la nebbia e il distacco dal cordone ombelicale.
Una serie di eventi che avrebbero reso triste e infelice chiunque: dai pub chiusi molto presto nelle gelide serate del nord, al pallido ricordo del seltz limone e sale e della granita a gennaio.
Roba da morirne, calcisticamente parlando, ma il Papu è il Papu.
Quel ragazzetto minuto e diversamente alto che faceva impazzire il Massimino è oggi, con tutta evidenza, uno dei pochi che possa cambiare volto a un collettivo di livello discreto, trasformandolo in grande squadra.
Gioca e si diverte, salta l’uomo quasi sempre sulle sacre zolle che furono dei Garrincha, dei Causio, dei Bruno Conti, senza disdegnare finezze e posizione in campo da “numero dieci”, completo come la tempesta perfetta che fonde il puntero e il delantero in un unico, mitologico, calciatore moderno.
Ha un modo di giocare che lo renderebbe adatto a qualunque campionato europeo, dalla Bundesliga alla Premier inglese, eppure gioca (ancora, forse per poco) a Bergamo, stella che brilla fra uomini veri, zero fighette, contratti con pochi zeri e poesia pallonara.
Ogni tanto questo fenomeno di costume, mania popolare, malattia inguaribile degli Italiani che si chiama calcio, racconta persino qualche bella storia.