Lo aveva capito, Zingaretti: quel ritrovato protagonismo del leader della Leopolda puzzava di fregatura lontano un chilometro.
Forse più.
E lo aveva anche detto all’altro Matteo, fra un post su Facebook e una ONG ciondolante nelle acque di Lampedusa.
Andiamo a votare, Matteo, chi se ne frega se perderemo, almeno ci toglieremo dalle scarpe due sassi grossi come limoni: i 5 Stelle da una parte e l’enclave renziana incistata nel PD dall’altra.
Matteo, quello dei porti, ci ha creduto: si è fidato della restaurazione piddina, del fremito d’orgoglio della nomenclatura vintage col marchio di Botteghe Oscure, più che del Nazareno; si è fidato, gonfio di sondaggi e lusinghe popolari, persino dell’asse sbilenco con Di Maio, in crisi da probabile ridimensionamento, e ha pigiato sull’acceleratore, stufo delle intemperanze grilline e conscio del processo di normalizzazione degli apriscatole difettosi.
Al voto, al voto.
Nel frattempo l’altro Matteo, svestiti i panni di Mister Bean della politica italiana, cominciava a soffiare sull’unico fuoco eterno dello Stivale, catalizzatore dei poteri “veri” della Repubblica: il Quirinale, con la sua carica simbolica e pratica, i riti finto-bizantini, le frasi dette, le dichiarazioni mai fatte, le trame infinite, gli inquilini che sembrano viverci per caso.
Due “stai sereno” piazzati lì, uno a Zingaretti e l’altro al Matteo cattivo, come una sentenza, e il richiamo alle urne diventa chimera in un paio di nottate.
L’officiante dal Colle fa il proprio mestiere, chiamando al capezzale della politica, ormai maionese impazzita, i restauratori professionisti dell’asse Roma-Bruxelles, salvatori di una Patria sotto attacco del solito, provvidenziale, “pericolo fascista”.
E facciamolo sto Governo.
I Cinque Stelle chiedono l’aiuto da casa e scelgono l’arrocco, preludio a uno scacco matto solo posticipato; il Matteo cattivo non ci capisce più una mazza e torna nella trincea di Pontida; il Matteo buono, si fa per dire, scinde l’atomo e torna decisivo con la propria sovrastimata pattuglia di parlamentari, alimentando lo psicodramma grillino e spettinando non poco Giuseppi Conte, l’avvocato fighetto del popolo; Mattarella abbozza, speranzoso di portare, come da protocollo, la carrozza del Governo giallo-rosso allo scoccare della mezzanotte di due anni da oggi, con l’elezione del nuovo presidente, democristiano di sinistra, europeista anche in assenza di Europa, defilato quando serve, decisivo praticamente sempre.
È uno schema, utilizzando una metafora calcistica, trapattoniano quanto basta, molta difesa e un po’ di contropiede, senza velleitarismi alla Arrigo Sacchi o derive decisioniste alla Conte, l’allenatore.
È l’Italia.
La solita, immarcescibile, Italietta da avanspettacolo, dove ogni macchietta diventa mattatore e gli attori sono sempre quelli, magari solo con una maschera diversa.
Cambio e mento.